La didattica sperimentale in un nuovo paradigma di collaborazione scuola-famiglia
di Gian Andrea Pagnoni
ultima modifica 11 febbraio 2022
Durante un viaggio in America Latina di cui ero coordinatore, una partecipante mi svelò a metà viaggio che aveva fatto indagini su di me prima di partire. Mi disse che le avevano detto che sono un docente alternativo e sperimentatore. Non sono convinto di essere un docente alternativo, sono certo di essere un docente sperimentatore.
Nella sperimentazione didattica dall'inizio della mia carriera ad oggi ho decisamente modificato il rapporto di collaborazione con le famglie e sono andato a cercare un rapporto di condivisione più profonda, anche nel conflitto. In questo articolo, presento il percoso che è nella mia mente quando mi occupo di didattica.
La didattica tradizionale
La didattica è la scienza della comunicazione applicata alla relazione educativa. Scopo della didattica è il miglioramento dell'efficacia dell'insegnamento e dell'apprendimento. Esistono classificazioni dei metodi didattici a seconda delle discipline oggetto d'insegnamento, dell'età dello studente e del contesto sociale, ma non esiste uno stile ottimale a priori, ogni strategia ha i suoi punti di forza e va scelta in base all'intervento didattico che si intende realizzare.
Sebbene in pratica esistono tante didattiche quanti sono i docenti del pianeta, storicamente si tende a separare il metodo tradizionale da quello sperimentale. Molti pensano che il metodo sperimentale sia quello sviluppato più di recente, in realtà i due metodi sono sempre coesistiti e la principale differenza tra i due non è nel tempo, ma nei numeri: l'approccio tradizionale basato sulla lezione frontale è quello seguito dalla maggior parte dei docenti, il che ha i suoi vantaggi.
Quando nel 2001 ho iniziato ad insegnare, ho immediatamente impostato una didattica basata sul "cooperative learning" (in italiano "apprendimento cooperativo"). Al tempo non era una metodica comune e i coordinatori di classi, una volta saputo che ero del medesimo consiglio, inserivano la metodologia "lavoro di gruppo" nella programmazione della classe. Oggi, nella stessa scuola, a distanza di 20 anni, il "lavoro di gruppo" è inserito come metodologia disponibile in tutte le programmazioni di classe e il Ministero finanzia corsi sulla "flipped classroom". Il termine significa "classe capovolta" e si riferisce ad una metodologia didattica con scarsa frontalizzazione della lezione, lezioni quasi esclusivamente dialogiche e fornitura di materiale alla classa in modo che una parte significativa del programma sia fatta autonomamente, con lavoro di gruppo, ovviamente sempre sotto la supervisione dell'insegnante. Il termine flipped classroom è anche utilizzato nelle recenti indicazioni del Ministero dell'Istruzione per l'insegnamento CLIL, ovvero l'insegnamento in lingua straniera di una disciplina non linguistica, ad esempio chimica in inglese o filosofia in tedesco. Questo insieme di caratteristiche ne evidenzia l'approccio sperimentale.
Nella storia i tentativi di innovazione didattica vi sono sempre stati; molte delle metodologie un tempo sperimentali hanno avuto successo e sono entrate in quella che oggi si chiama didattica tradizionale. Un esempio è l'utilizzo dei computer. Negli anni Novanta, si sviluppano le reti telematiche e il cyberspazio che da un lato hanno creato nuovi modelli di produzione e comunicazione del sapere e dall'altro hanno fatto emergere nuove criticità. Internet, indubbiamente la più grande rivoluzione culturale della storia dell'uomo, ha permesso la nascita dell'intelligenza collettiva, ha migliorato l'efficienza dei sistemi e fornito opportunità, ma ha anche creato nuovi ambiti criminali e ha prodotto nuove forme di esclusione tra chi riesce a trarre vantaggi e chi no. Personalmente ne ho solo tratto vantaggi e cerco di insegnare come.
Quando una decina d'anni fa ho cominciato ad utilizzare la mail come metodo di comunicazione con gli studenti ho avuto qualche opposizione, lo stesso è successo quando ho iniziato a fare utilizzare in classe lo smartphone, poi i software in cloud e infine WhatsApp e Facebook. Ciononostante, sono certo che anche i più accaniti detrattori dell'era dell'informazione si rendano conto (magari con una punta di rammarico) che, nell'era degli smartphone e dei social, la didattica su base informatica è già diventata tradizionale.
Se è evidente che le metodiche della didattica tradizionale sono tuttaltro che immutabili, la didattica sperimentale è anch'essa in evoluzione?
La didattica sperimentale: a scuola di vita
Nell'Antica Grecia il termine "didattica" indicava la pratica di istruire attraverso la narrazione. Potrà sembrare strano, ma il concetto di didattica sperimentale è antico come quello tradizionale ed ha le sue radici nella maieutica socratica, ovvero il metodo del dialogo grazie al quale si aiuta il discepolo a far emergere conoscenze che "ha già dentro di sé". Nel Settecento, in contrasto con la pratica educativa del tempo basata su regole e sanzioni, Rousseau sottolinea la necessità di un'educazione che "elimina le influenze negative" e il "maestro" dovrebbe essere in grado di "stimolare la curiosità nel rispetto delle individualità". Il concetto moderno di "docente sperimentatore", ovvero colui che applica la didattica sperimentale, risale alla corrente dell'Attivismo Pedagogico di fine '800, di cui Rousseau è di fatto uno dei precursori, e il cui principale esponente è il filosofo americano John Dewey (1859-1952).
Dewey getta le basi per la sperimentazione di diverse esperienze educative in cui centrale risulta l'individualità dello studente. Nell'Attivismo, la scuola diventa una "finestra sul mondo" che sviluppa il dialogo, l'intraprendenza e la responsabilità. In Italia un'esponente di fama internazionale è Maria Montessori (1870-1952) la cui pedagogia si basa sull'indipendenza e sulla libertà di scelta del proprio percorso educativo.
Con lo scopo di guidare il bambino verso l'amore per la vita, il metodo Montessori si incentra sull'Educazione Cosmica in cui (attraverso il continuo rimando dall'esperienza personale a quella universale e dal concreto all'astratto), oltre all'insegnamento delle materie tradizionali, vengono trasmessi i concetti di "rispetto dell'ambiente" e di "ricerca della pace".
Il metodo Montessori è stato criticato sul piano ideologico per la rigida contrapposizione tra fanciullo buono e adulto corrotto, ma è stato anche adottato in oltre 20.000 scuole nel mondo. Per questo è stato oggetto di numerosi studi scientifici: di rilievo i risultati dello studio commissionato nel 1978 dal Dipartimento all'Educazione del Governo Americano, che ha aperto la strada al finanziamento delle scuole Montessori negli Stati Uniti e lo studio del 2006 di Angeline Lillard e del suo gruppo di ricerca dell'Università della Virginia, pubblicato sulla rivista Science. Con una analisi comparativa tra i risultati nelle scuole Montessori e quelle con approccio tradizionale, lo studio della Lillard rileva che al termine del percorso Montessori i "ragazzi scrivono in modo più creativo e con strutture linguistiche più complesse, mostrano risposte più positive a problematiche sociali e riportano sentimenti di maggiore senso di appartenenza alla comunità scolastica".
Il metodo Montessori è di fatto una anticipazione della Psicologia Costruttivista e del metodo del problem-posing, che ho personalmente seguito fin dall'inizio della mia carriera di docente prima di avere conoscenze teoriche di didattica. La matrice costruttivista, iniziata negli anni '50 dallo psicologo statunitense George Kelly, mette in discussione la possibilità di una conoscenza "oggettiva" e la stessa osservazione diretta di un fenomeno non è più considerata fonte privilegiata di conoscenza obiettiva. "Tutto ciò che è detto, è detto da qualcuno"; qualunque osservazione è possibile solo alla luce di teorie (umane), le conoscenze non sono prelevate dall'ambiente come risorse cristalline, ma emergono dalla evoluzione di una conoscenza precedente.
Ancora oggi noto con preoccupazione il bisogno di alcuni adulti (sia genitori sia docenti) di ricevere/dare certezze per la realtà futura del figlio/studente. Tale tipo di certezze non è accessibile ad un essere mortale e la nevrotica ricerca in questo senso sposta le ansie dalla nevrosi dell'adulto a quella del ragazzo, con la pericolosa conseguenza che, essendo questo un essere psichicamente meno strutturato, la nevrosi può sfociare nel disturbo.
Se la teoria della didattica sperimentale è relativamente facile da spiegare, più complessa è la messa in pratica del metodo del problem solving. Non bisogna infatti dimenticare che una realtà scolastica non è l'oggetto astratto di una sperimentazione accademica, ma è un insieme di persone che interagiscono professionalmente all'interno di leggi e regole. In questo senso qualunque docente ha una serie di obblighi contrattuali che riducono il margine di movimento rispetto alle possibilità immaginative di un filosofo dell'educazione. Ad esempio esistono i programmi ministeriali che è opportuno seguire, almeno a grandi linee e se non altro per non mettere in difficoltà gli studenti all'esame di stato dove un docente (spesso di impostazione tradizionale) verificherà più le conoscenze che le competenze acquisite. Ciononostante è importante essere consapevoli che l'attuale contesto normativo permette e favorisce la sperimentazione didattica. L'art. 33 della Costituzione garantisce la libertà di insegnamento e nella legge 107/2015 all'art. 1 comma 129, tra i criteri per la valorizzazione dei docenti vengono esplicitati i "risultati ... in relazione ... all'innovazione didattica e metodologica".
Secondo Claparède, esponente della scuola attiva di primo '900, i docenti devono sviluppare una "scuola di vita" nella quale si formano attitudini sociali e comportamenti positivi di reciprocità. Egli teorizzava che la scuola non doveva essere un "uditorio", ma un "laboratorio scientifico" dove ognuno è impegnato a produrre la propria ricerca all'interno di un interesse collettivo. Inoltre, l'insegnante non deve essere percepito come un onnisciente incaricato di riempire le menti col proprio sapere, ma deve stimolare gli interessi e lo spirito cooperativo; il che implica una formazione psicologica dell'insegnante stesso.
Non a caso gli artt. 26-29 del Contratto Collettivo dei Docenti chiariscono che il profilo professionale dei docenti “è costituito da competenze disciplinari, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate ed interagenti, che si sviluppano col maturare dell'esperienza didattica, l'attività di studio e di sistematizzazione della pratica didattica”. Il metodo educativo di un docente deve quindi emergere, di legge, dalle proprie specifiche umane, relazionali e culturali. In questo senso non esiste "un metodo" migliore, ma solo "metodi" con i quali i singoli docenti esprimono al meglio la propria capacità educativa.
Ritengo che la passione del docente per la materia e una didattica basata sul lavoro di gruppo degli studenti siano i driver per stimolare gli studenti all'apprendimento individualizzato. Il connubio tra la sperimentazione (di cui la mia personalità ha esigenza) e l'allineamento ai programmi ministeriali (che la pianificazione di istituto mi richiede) lo cerco capovolgendo l'impostazione didattica tradizionale nell'affrontare i medesimi programmi, agganciandomi quindi alla metodologia della flipped classroom. Responsabilizzo gli studenti alla cooperazione incrementando il voto di una verifica in proporzione alla performance del gruppo a cui appartiene; fornisco in anticipo gli argomenti del programma che potrà uscire alla verifica in forma di esercizi, gli studenti devono tentare di risolvere una parte di questi prima della mia spiegazione, costruire il percorso risolutivo insieme a loro dove il problema da risolvere è la gestione consapevole dei contenuti che usciranno alla verifica. Le conoscenze sono importanti solo in quanto mezzo per sviluppare competenze. Per i non addetti non è facile comprendere la differenza tra conoscenze e competenze. Per semplificare la lettura chiariamo che una "conoscenza" è una singola nozione: un dato, un fatto, una teoria o una procedura. Una "abilità" è la capacità di applicare le conoscenze per svolgere compiti e risolvere dei problemi. La competenza rappresenta la capacità di utilizzare conoscenze, abilità e, in genere, tutto il proprio sapere, in situazioni reali di vita e lavoro. Ad esempio per un idraulico è la differenza tra sostituire un tubo rotto (conoscenza), analizzare una situazione per capire che è il tubo rotto e sostituirlo (abilità) e relazionarsi con il cliente, rassicurarlo, spiegargli cosa è successo e poi sostituire il tubo (competenza). Evidentemente per sviluppare competenze è necessaria la propensione al "problem solving", che il docente sviluppa nei ragazzi tramite il problem-posing.
Il termine problem-posing è stato coniato dall'educatore brasiliano Paulo Freire. Nel suo testo del 1970 "Pedagogy of the Oppressed" Freire sottolinea l'importanza del pensiero critico per l'affrancamento dell'individuo verso la vita adulta e lo propone in alternativa all'educazione tradizionale, che, a suo modo di vedere, tende a trattare lo studente come un contenitore da riempire di conoscenze. Secondo la teoria Costruttivista, di cui anche Freire è un esponente, ogni individuo costruisce una propria "mappa di significati personali" che gli consentono di vivere nel "proprio" mondo. La costruzione della mappa avviene all'interno di gruppi sociali ristretti e attraverso la fondamentale mediazione del linguaggio, soprattutto non verbale. Per Freire l'ambiente non è un luogo ricco di informazioni precostituite da raccogliere, e l'interesse della didattica va spostato dal palinsesto curricolare all'allestimento di un ambiente sociale per lo sviluppo dell'individuo. Se il Costruttivismo rifiuta la netta distinzione tra colui che osserva e chi è osservato, le dirette conseguenze nella didattica sperimentale sono l'impossibilità di una distinzione netta tra docente e discente, perché entrambi si definiscono come tali attraverso la reciproca interazione sociale.
Anni fa, in una delle riunioni che ogni inizio anno faccio con le famiglie per discutere della mia impostazione didattica e dei programmi, una madre mi chiese se "mi ero mai fatto domande sul valore di una ottima lezione frontale tradizionale". Deglutito il lieve disagio provocato da un atteggiamento così supponente, ho chiarito che credo profondamente nella necessità della lezione frontale ... quando è necessaria allo scopo. Se un docente si sente predisposto solo per la lezione frontale è giusto ed opportuno che basi la propria didattica sul metodo tradizionale. Per quanto mi riguarda, la lezione dialogica è più confacente alla mia personalità ed è il modo con cui trasmetto (al meglio delle mie capacità) l'interesse per la mia materia. Ciononostante quando non è stato compreso un importante concetto o quando ritengo necessario introdurre gli studenti in argomenti complessi come la meccanica quantistica, l'evoluzione o la tettonica, utilizzo sempre e volentieri la lezione frontale. Per quanto sperimentale e "flipped" possa essere un metodo didattico, sarà sempre necessario avere momenti in cui il docente riassume e conduce.
Le conoscenze tecniche e storiche di didattica presentate in questo articolo si sono evolute nella mia mente in anni recenti, a seguito delle domande che alcuni genitori mi ponevano nelle varie riunioni di inizio anno. Nessuno, al concorso per l'insegnamento, mi ha fatto domande di tipo pedagogico o didattico. Al concorso che ho sostenuto per diventare insegnante i commissari mi hanno banalmente riproposto le domande che i colleghi universitari (dipendenti dello stesso Ministero) mi avevano fatto alcuni anni prima all'Università e il cui esito era già certificato nel voto di laurea. Nessuno ha mai verificato le mie competenze relazionali sulla gestione di un gruppo di persone in età evolutiva, nessuno ha mai valutato la mia tolleranza alla frustrazione del fisiologico conflitto generazionale e di ruolo. Il motivo per cui ho sempre avuto una impostazione didattica che segue i principi dell'Attivismo Pedagogico e della Psicologia Costruttivista (prima ancora di conoscere tali termini) è molto banale: il mio percorso professionale è nato nella libera professione ed anche dopo aver vinto il concorso per l'insegnamento sono parallelamente rimasto nell'ambito imprenditoriale. Una delle dichiarazioni che faccio ai miei studenti universitari alla prima lezione è: "io non sono un accademico, ho solo un contratto di collaborazione con l'Università; non vivo qua dentro per raccontarvi cosa succede la fuori, vivo la fuori e vengo qua dentro per farvi sperimentare il mondo del lavoro".
In ambito professionale ed aziendale la prima cosa che si impara a proprie spese è che le conoscenze acquisite a scuola hanno poco a che fare con quelle necessarie per il lavoro. I risultati richiesti dal superiore o dal mercato si raggiungono se ci si relaziona in modo collaborativo con i colleghi, gestendo la frustrazione generata dal fatto che ognuno ritene insufficiente la collaborazione che l'altro ci offre. Col tempo ci si rende conto che nel lavoro il problema tecnico è sempre risolvibile, mentre i problemi relazionali hanno sempre una fisiologica componente nevrotica, non vengono mai completamente risolti e un'enorme quantità di energia è necessaria per la loro semplice gestione. Un dipendente è interessante nella misura in cui risolve i problemi dei clienti e tutela gli interessi di medio periodo dell'azienda.
Eccezione a questa regola è il mestiere del docente, il quale impara a scuola le conoscenze che gli servono nel lavoro, viene selezionato sulla base delle conoscenze (sia all'Università che al concorso), e il datore di lavoro (il Dirigente Scolastico) purtroppo può legalmente mettere in discussione il dipendente solo su basi formali e non sulle competenze didattico/relazionali, che sono quelle che il mestiere di docente richiede maggiormente.
Il DPR 249/1998 cosiddetto "Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria", all'articolo 1 comma 1, sostiene che "La scuola è luogo di formazione e di educazione mediante lo studio, l'acquisizione delle conoscenze e lo sviluppo della coscienza critica". Le famiglie e i docenti che con miopia vedono la scuola come il mero erogatore di una "solida preparazione di base", dovrebbero tenere presente che questo non è il motivo legale per cui i docenti sono stipendiati: è infatti evidente che, nella normativa italiana, le conoscenze sono il "mezzo" e non il "fine", essendo quest'ultimo "la crescita della persona in tutte le sue dimensioni" (art. 1 comma 2).
Verso un nuovo paradigma di collaborazione scuola-famiglia
Mia nonna dava del "voi" alla sua maestra e a tutti era chiaro dove terminava il ruolo educativo della famiglia e dove iniziava quello della scuola. Il rapporto tra le due istituzioni si riduceva ad un flusso unidirezionale: la scuola diceva, la famiglia ascoltava. La famiglia continua a mutare il suo aspetto con una costante trasformazione di ruoli, valori, dinamiche. Le diverse riforme hanno inserito la scuola nel processo di cambiamento storico della famiglia, proponendo nuove tipologie di integrazione tra questi due universi e cercando di dare alla famiglia un ruolo più centrale nell’iter. Diversamente dai miei genitori, e ancora di più dai miei nonni, iI genitori di oggi sono (volenti o nolenti) spesso impegnati nelle consegne scolastiche del figlio; al tempo stesso i docenti di oggi valutano competenze che vanno al di la dalle mere conoscenze dello studente, ad esempio valutano il comportamento attribuendo un voto che fa media. Il DM 5/2009 art. 1, comma 1 sostiene che la "valutazione del comportamento degli studenti [... deve ...] accertare i livelli di apprendimento e di consapevolezza raggiunti, con specifico riferimento alla cultura e ai valori della cittadinanza e della convivenza civile". Il voto di condotta modifica la media scolastica, la sua insufficienza comporta la mancata promozione e, nelle griglie per la attribuzione dei voti massimi della condotta disponibili nei POF delle scuole, particolare importanza ha la "collaborazione con i compagni e con i docenti". Il voto viene assegnato con modalità e griglie standardizzate e può essere contestato legalmente dalla famiglia. Da tempo quindi la normativa prevede per la scuola non già una mera funzione di fornitura di conoscenze, e da tempo la legge e i costumi sociali permettono alla famiglia di essere attivamente partecipe alla vita scolastica. Oggi la crescita della persona è un obiettivo comune alla scuola e alla famiglia e i due ruoli sono più compenetrati rispetto ad alcuni decenni fa.
La collaborazione Scuola-Famiglia è una "alleanza educativa" o una "confusione di ruoli"? La prospettiva è negli occhi di chi guarda e si attiva. Molti vedono un incremento dei conflitti tra famiglie e scuola, ma il conflitto è solo apparente. E' evidente che per gli obiettivi che le due istituzioni hanno, il confronto scuola-famiglia deve essere all'insegna della collaborazione. L'offerta formativa della scuola in cui insegno ha una attitudine all'inclusività e un approccio alla relazione e alla progettazione decisamente più evoluti rispetto a quando la frequentavo come studente. Questo risultato è sicuramente imputabile all'intensificazione del rapporto scuola/famiglie, talvolta di scontro, ma nella maggior parte dei casi di confronto. Non a caso il Ministero ha emanato le linee guida per il "patto di corresponsabilità educativa" che scuola e famiglie si impegnano a rispettare sottoscrivendolo ad inizio anno.
Nel tempo mi sono reso conto che ciò che differenzia il docente tradizionale da quello sperimentatore non è il metodo di insegnamento, ma la direzione del flusso comunicativo. Se il docente tradizionale è concentrato a potenziare le proprie conoscenze per meglio trasferirle al discente, il docente sperimentatore è concentrato a mantenere viva la capacità delle persone di meravigliarsi, e ne riceve le emozioni che tengono in moto il proprio lavoro. Il docente sperimentatore è più interessato alle domande degli studenti che alle loro risposte. Il docente sperimentatore è una persona dotata di un pizzico di "visione" che tenta di introdurre dinamiche non standard con un anticipo di alcuni anni rispetto al contesto sociale di riferimento. Deve avere ovviamente lo spessore relazionale e culturale per sopportare il fatto che la maggior parte degli esseri umani vive il cambiamento come un lutto. Il docente sperimentatore è in perenne conflitto interno tra il socratico sapere di non sapere e il narcisismo onnipotente. Ma è anche disposto ad immolare questa parte di se sull'altare dell'accordo; sono gli studenti, i colleghi e le famiglie (ovvero gli altri), che lo riportano alla realtà scolastica. Lungo la strada per l'accordo viene in aiuto la scienza della comunicazione.
Il colloquio docenti/famiglie è un obbligo di legge che alcuni vivono come un peso, ma di fatto va nella direzione di un confronto che ricerca soluzioni e deve essere vissuto serenamente come parte integrante del lavoro di educatore del genitore e del docente. L'ascolto attivo e la collaborazione con le famiglie è oggi condizione imprescindibile della didattica sperimentale e, in ampliamento agli obblighi di legge che limitano i colloqui a pochi momenti ufficiali, il docente sperimentatore dovrebbe puntare ad una forte collaborazione con la famiglia ed essere quindi disponibile ad una comunicazione informale tutto l'anno con i colleghi, le famiglie e con i propri studenti.
L'accordo tra famiglia e scuola è necessario perché entrambi dicono a parole che studiare è importante, ma entrambi faticano a convincere gli studenti di ciò. Il motivo di tale difficoltà è che l'adulto ha una mente sovrastrutturata, è abituato a fare le cose che fa da sempre e tende spesso a perdere la consapevolezza del motivo di fondo. Noi ripetiamo ai figli e agli studenti che devono studiare perché altrimenti rimangono ignoranti, perché non avranno una interessante posizione lavorativa, perché non avranno un livello di retribuzione economica soddisfacente, ecc. Ma in queste spiegazioni non vi è il vero motivo per cui si studia. Il vero motivo è che studiare con passione rende più probabile l'accesso ad una vita di qualità. Per fare ciò è necessario risolvere quotidianamente diversi problemi, in particolare cercare di migliorare la qualità delle proprie relazioni sociali, trovare un lavoro possibilmente vicino alle proprie inclinazioni caratteriali, avere una soddisfacente retribuzione economica. Lo studio di discipline molto diverse, ovvero umanistiche, scientifiche e tecniche, sviluppa la capacità di risolvere problemi diversi, se poi questo viene fatto correttamente in gruppo, oltre a velocizzare la risoluzione si sviluppano le soluzioni condivise. La condivisione, oltre a portare soluzioni tecnicamente più efficaci, induce un maggior benessere relazionale: come animali sociali proviamo infatti un intrinseco piacere se l'obiettivo è raggiunto insieme.
ultima modifica 11 febbraio 2022
Durante un viaggio in America Latina di cui ero coordinatore, una partecipante mi svelò a metà viaggio che aveva fatto indagini su di me prima di partire. Mi disse che le avevano detto che sono un docente alternativo e sperimentatore. Non sono convinto di essere un docente alternativo, sono certo di essere un docente sperimentatore.
Nella sperimentazione didattica dall'inizio della mia carriera ad oggi ho decisamente modificato il rapporto di collaborazione con le famglie e sono andato a cercare un rapporto di condivisione più profonda, anche nel conflitto. In questo articolo, presento il percoso che è nella mia mente quando mi occupo di didattica.
La didattica tradizionale
La didattica è la scienza della comunicazione applicata alla relazione educativa. Scopo della didattica è il miglioramento dell'efficacia dell'insegnamento e dell'apprendimento. Esistono classificazioni dei metodi didattici a seconda delle discipline oggetto d'insegnamento, dell'età dello studente e del contesto sociale, ma non esiste uno stile ottimale a priori, ogni strategia ha i suoi punti di forza e va scelta in base all'intervento didattico che si intende realizzare.
Sebbene in pratica esistono tante didattiche quanti sono i docenti del pianeta, storicamente si tende a separare il metodo tradizionale da quello sperimentale. Molti pensano che il metodo sperimentale sia quello sviluppato più di recente, in realtà i due metodi sono sempre coesistiti e la principale differenza tra i due non è nel tempo, ma nei numeri: l'approccio tradizionale basato sulla lezione frontale è quello seguito dalla maggior parte dei docenti, il che ha i suoi vantaggi.
Quando nel 2001 ho iniziato ad insegnare, ho immediatamente impostato una didattica basata sul "cooperative learning" (in italiano "apprendimento cooperativo"). Al tempo non era una metodica comune e i coordinatori di classi, una volta saputo che ero del medesimo consiglio, inserivano la metodologia "lavoro di gruppo" nella programmazione della classe. Oggi, nella stessa scuola, a distanza di 20 anni, il "lavoro di gruppo" è inserito come metodologia disponibile in tutte le programmazioni di classe e il Ministero finanzia corsi sulla "flipped classroom". Il termine significa "classe capovolta" e si riferisce ad una metodologia didattica con scarsa frontalizzazione della lezione, lezioni quasi esclusivamente dialogiche e fornitura di materiale alla classa in modo che una parte significativa del programma sia fatta autonomamente, con lavoro di gruppo, ovviamente sempre sotto la supervisione dell'insegnante. Il termine flipped classroom è anche utilizzato nelle recenti indicazioni del Ministero dell'Istruzione per l'insegnamento CLIL, ovvero l'insegnamento in lingua straniera di una disciplina non linguistica, ad esempio chimica in inglese o filosofia in tedesco. Questo insieme di caratteristiche ne evidenzia l'approccio sperimentale.
Nella storia i tentativi di innovazione didattica vi sono sempre stati; molte delle metodologie un tempo sperimentali hanno avuto successo e sono entrate in quella che oggi si chiama didattica tradizionale. Un esempio è l'utilizzo dei computer. Negli anni Novanta, si sviluppano le reti telematiche e il cyberspazio che da un lato hanno creato nuovi modelli di produzione e comunicazione del sapere e dall'altro hanno fatto emergere nuove criticità. Internet, indubbiamente la più grande rivoluzione culturale della storia dell'uomo, ha permesso la nascita dell'intelligenza collettiva, ha migliorato l'efficienza dei sistemi e fornito opportunità, ma ha anche creato nuovi ambiti criminali e ha prodotto nuove forme di esclusione tra chi riesce a trarre vantaggi e chi no. Personalmente ne ho solo tratto vantaggi e cerco di insegnare come.
Quando una decina d'anni fa ho cominciato ad utilizzare la mail come metodo di comunicazione con gli studenti ho avuto qualche opposizione, lo stesso è successo quando ho iniziato a fare utilizzare in classe lo smartphone, poi i software in cloud e infine WhatsApp e Facebook. Ciononostante, sono certo che anche i più accaniti detrattori dell'era dell'informazione si rendano conto (magari con una punta di rammarico) che, nell'era degli smartphone e dei social, la didattica su base informatica è già diventata tradizionale.
Se è evidente che le metodiche della didattica tradizionale sono tuttaltro che immutabili, la didattica sperimentale è anch'essa in evoluzione?
La didattica sperimentale: a scuola di vita
Nell'Antica Grecia il termine "didattica" indicava la pratica di istruire attraverso la narrazione. Potrà sembrare strano, ma il concetto di didattica sperimentale è antico come quello tradizionale ed ha le sue radici nella maieutica socratica, ovvero il metodo del dialogo grazie al quale si aiuta il discepolo a far emergere conoscenze che "ha già dentro di sé". Nel Settecento, in contrasto con la pratica educativa del tempo basata su regole e sanzioni, Rousseau sottolinea la necessità di un'educazione che "elimina le influenze negative" e il "maestro" dovrebbe essere in grado di "stimolare la curiosità nel rispetto delle individualità". Il concetto moderno di "docente sperimentatore", ovvero colui che applica la didattica sperimentale, risale alla corrente dell'Attivismo Pedagogico di fine '800, di cui Rousseau è di fatto uno dei precursori, e il cui principale esponente è il filosofo americano John Dewey (1859-1952).
Dewey getta le basi per la sperimentazione di diverse esperienze educative in cui centrale risulta l'individualità dello studente. Nell'Attivismo, la scuola diventa una "finestra sul mondo" che sviluppa il dialogo, l'intraprendenza e la responsabilità. In Italia un'esponente di fama internazionale è Maria Montessori (1870-1952) la cui pedagogia si basa sull'indipendenza e sulla libertà di scelta del proprio percorso educativo.
Con lo scopo di guidare il bambino verso l'amore per la vita, il metodo Montessori si incentra sull'Educazione Cosmica in cui (attraverso il continuo rimando dall'esperienza personale a quella universale e dal concreto all'astratto), oltre all'insegnamento delle materie tradizionali, vengono trasmessi i concetti di "rispetto dell'ambiente" e di "ricerca della pace".
Il metodo Montessori è stato criticato sul piano ideologico per la rigida contrapposizione tra fanciullo buono e adulto corrotto, ma è stato anche adottato in oltre 20.000 scuole nel mondo. Per questo è stato oggetto di numerosi studi scientifici: di rilievo i risultati dello studio commissionato nel 1978 dal Dipartimento all'Educazione del Governo Americano, che ha aperto la strada al finanziamento delle scuole Montessori negli Stati Uniti e lo studio del 2006 di Angeline Lillard e del suo gruppo di ricerca dell'Università della Virginia, pubblicato sulla rivista Science. Con una analisi comparativa tra i risultati nelle scuole Montessori e quelle con approccio tradizionale, lo studio della Lillard rileva che al termine del percorso Montessori i "ragazzi scrivono in modo più creativo e con strutture linguistiche più complesse, mostrano risposte più positive a problematiche sociali e riportano sentimenti di maggiore senso di appartenenza alla comunità scolastica".
Il metodo Montessori è di fatto una anticipazione della Psicologia Costruttivista e del metodo del problem-posing, che ho personalmente seguito fin dall'inizio della mia carriera di docente prima di avere conoscenze teoriche di didattica. La matrice costruttivista, iniziata negli anni '50 dallo psicologo statunitense George Kelly, mette in discussione la possibilità di una conoscenza "oggettiva" e la stessa osservazione diretta di un fenomeno non è più considerata fonte privilegiata di conoscenza obiettiva. "Tutto ciò che è detto, è detto da qualcuno"; qualunque osservazione è possibile solo alla luce di teorie (umane), le conoscenze non sono prelevate dall'ambiente come risorse cristalline, ma emergono dalla evoluzione di una conoscenza precedente.
Ancora oggi noto con preoccupazione il bisogno di alcuni adulti (sia genitori sia docenti) di ricevere/dare certezze per la realtà futura del figlio/studente. Tale tipo di certezze non è accessibile ad un essere mortale e la nevrotica ricerca in questo senso sposta le ansie dalla nevrosi dell'adulto a quella del ragazzo, con la pericolosa conseguenza che, essendo questo un essere psichicamente meno strutturato, la nevrosi può sfociare nel disturbo.
Se la teoria della didattica sperimentale è relativamente facile da spiegare, più complessa è la messa in pratica del metodo del problem solving. Non bisogna infatti dimenticare che una realtà scolastica non è l'oggetto astratto di una sperimentazione accademica, ma è un insieme di persone che interagiscono professionalmente all'interno di leggi e regole. In questo senso qualunque docente ha una serie di obblighi contrattuali che riducono il margine di movimento rispetto alle possibilità immaginative di un filosofo dell'educazione. Ad esempio esistono i programmi ministeriali che è opportuno seguire, almeno a grandi linee e se non altro per non mettere in difficoltà gli studenti all'esame di stato dove un docente (spesso di impostazione tradizionale) verificherà più le conoscenze che le competenze acquisite. Ciononostante è importante essere consapevoli che l'attuale contesto normativo permette e favorisce la sperimentazione didattica. L'art. 33 della Costituzione garantisce la libertà di insegnamento e nella legge 107/2015 all'art. 1 comma 129, tra i criteri per la valorizzazione dei docenti vengono esplicitati i "risultati ... in relazione ... all'innovazione didattica e metodologica".
Secondo Claparède, esponente della scuola attiva di primo '900, i docenti devono sviluppare una "scuola di vita" nella quale si formano attitudini sociali e comportamenti positivi di reciprocità. Egli teorizzava che la scuola non doveva essere un "uditorio", ma un "laboratorio scientifico" dove ognuno è impegnato a produrre la propria ricerca all'interno di un interesse collettivo. Inoltre, l'insegnante non deve essere percepito come un onnisciente incaricato di riempire le menti col proprio sapere, ma deve stimolare gli interessi e lo spirito cooperativo; il che implica una formazione psicologica dell'insegnante stesso.
Non a caso gli artt. 26-29 del Contratto Collettivo dei Docenti chiariscono che il profilo professionale dei docenti “è costituito da competenze disciplinari, psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate ed interagenti, che si sviluppano col maturare dell'esperienza didattica, l'attività di studio e di sistematizzazione della pratica didattica”. Il metodo educativo di un docente deve quindi emergere, di legge, dalle proprie specifiche umane, relazionali e culturali. In questo senso non esiste "un metodo" migliore, ma solo "metodi" con i quali i singoli docenti esprimono al meglio la propria capacità educativa.
Ritengo che la passione del docente per la materia e una didattica basata sul lavoro di gruppo degli studenti siano i driver per stimolare gli studenti all'apprendimento individualizzato. Il connubio tra la sperimentazione (di cui la mia personalità ha esigenza) e l'allineamento ai programmi ministeriali (che la pianificazione di istituto mi richiede) lo cerco capovolgendo l'impostazione didattica tradizionale nell'affrontare i medesimi programmi, agganciandomi quindi alla metodologia della flipped classroom. Responsabilizzo gli studenti alla cooperazione incrementando il voto di una verifica in proporzione alla performance del gruppo a cui appartiene; fornisco in anticipo gli argomenti del programma che potrà uscire alla verifica in forma di esercizi, gli studenti devono tentare di risolvere una parte di questi prima della mia spiegazione, costruire il percorso risolutivo insieme a loro dove il problema da risolvere è la gestione consapevole dei contenuti che usciranno alla verifica. Le conoscenze sono importanti solo in quanto mezzo per sviluppare competenze. Per i non addetti non è facile comprendere la differenza tra conoscenze e competenze. Per semplificare la lettura chiariamo che una "conoscenza" è una singola nozione: un dato, un fatto, una teoria o una procedura. Una "abilità" è la capacità di applicare le conoscenze per svolgere compiti e risolvere dei problemi. La competenza rappresenta la capacità di utilizzare conoscenze, abilità e, in genere, tutto il proprio sapere, in situazioni reali di vita e lavoro. Ad esempio per un idraulico è la differenza tra sostituire un tubo rotto (conoscenza), analizzare una situazione per capire che è il tubo rotto e sostituirlo (abilità) e relazionarsi con il cliente, rassicurarlo, spiegargli cosa è successo e poi sostituire il tubo (competenza). Evidentemente per sviluppare competenze è necessaria la propensione al "problem solving", che il docente sviluppa nei ragazzi tramite il problem-posing.
Il termine problem-posing è stato coniato dall'educatore brasiliano Paulo Freire. Nel suo testo del 1970 "Pedagogy of the Oppressed" Freire sottolinea l'importanza del pensiero critico per l'affrancamento dell'individuo verso la vita adulta e lo propone in alternativa all'educazione tradizionale, che, a suo modo di vedere, tende a trattare lo studente come un contenitore da riempire di conoscenze. Secondo la teoria Costruttivista, di cui anche Freire è un esponente, ogni individuo costruisce una propria "mappa di significati personali" che gli consentono di vivere nel "proprio" mondo. La costruzione della mappa avviene all'interno di gruppi sociali ristretti e attraverso la fondamentale mediazione del linguaggio, soprattutto non verbale. Per Freire l'ambiente non è un luogo ricco di informazioni precostituite da raccogliere, e l'interesse della didattica va spostato dal palinsesto curricolare all'allestimento di un ambiente sociale per lo sviluppo dell'individuo. Se il Costruttivismo rifiuta la netta distinzione tra colui che osserva e chi è osservato, le dirette conseguenze nella didattica sperimentale sono l'impossibilità di una distinzione netta tra docente e discente, perché entrambi si definiscono come tali attraverso la reciproca interazione sociale.
Anni fa, in una delle riunioni che ogni inizio anno faccio con le famiglie per discutere della mia impostazione didattica e dei programmi, una madre mi chiese se "mi ero mai fatto domande sul valore di una ottima lezione frontale tradizionale". Deglutito il lieve disagio provocato da un atteggiamento così supponente, ho chiarito che credo profondamente nella necessità della lezione frontale ... quando è necessaria allo scopo. Se un docente si sente predisposto solo per la lezione frontale è giusto ed opportuno che basi la propria didattica sul metodo tradizionale. Per quanto mi riguarda, la lezione dialogica è più confacente alla mia personalità ed è il modo con cui trasmetto (al meglio delle mie capacità) l'interesse per la mia materia. Ciononostante quando non è stato compreso un importante concetto o quando ritengo necessario introdurre gli studenti in argomenti complessi come la meccanica quantistica, l'evoluzione o la tettonica, utilizzo sempre e volentieri la lezione frontale. Per quanto sperimentale e "flipped" possa essere un metodo didattico, sarà sempre necessario avere momenti in cui il docente riassume e conduce.
Le conoscenze tecniche e storiche di didattica presentate in questo articolo si sono evolute nella mia mente in anni recenti, a seguito delle domande che alcuni genitori mi ponevano nelle varie riunioni di inizio anno. Nessuno, al concorso per l'insegnamento, mi ha fatto domande di tipo pedagogico o didattico. Al concorso che ho sostenuto per diventare insegnante i commissari mi hanno banalmente riproposto le domande che i colleghi universitari (dipendenti dello stesso Ministero) mi avevano fatto alcuni anni prima all'Università e il cui esito era già certificato nel voto di laurea. Nessuno ha mai verificato le mie competenze relazionali sulla gestione di un gruppo di persone in età evolutiva, nessuno ha mai valutato la mia tolleranza alla frustrazione del fisiologico conflitto generazionale e di ruolo. Il motivo per cui ho sempre avuto una impostazione didattica che segue i principi dell'Attivismo Pedagogico e della Psicologia Costruttivista (prima ancora di conoscere tali termini) è molto banale: il mio percorso professionale è nato nella libera professione ed anche dopo aver vinto il concorso per l'insegnamento sono parallelamente rimasto nell'ambito imprenditoriale. Una delle dichiarazioni che faccio ai miei studenti universitari alla prima lezione è: "io non sono un accademico, ho solo un contratto di collaborazione con l'Università; non vivo qua dentro per raccontarvi cosa succede la fuori, vivo la fuori e vengo qua dentro per farvi sperimentare il mondo del lavoro".
In ambito professionale ed aziendale la prima cosa che si impara a proprie spese è che le conoscenze acquisite a scuola hanno poco a che fare con quelle necessarie per il lavoro. I risultati richiesti dal superiore o dal mercato si raggiungono se ci si relaziona in modo collaborativo con i colleghi, gestendo la frustrazione generata dal fatto che ognuno ritene insufficiente la collaborazione che l'altro ci offre. Col tempo ci si rende conto che nel lavoro il problema tecnico è sempre risolvibile, mentre i problemi relazionali hanno sempre una fisiologica componente nevrotica, non vengono mai completamente risolti e un'enorme quantità di energia è necessaria per la loro semplice gestione. Un dipendente è interessante nella misura in cui risolve i problemi dei clienti e tutela gli interessi di medio periodo dell'azienda.
Eccezione a questa regola è il mestiere del docente, il quale impara a scuola le conoscenze che gli servono nel lavoro, viene selezionato sulla base delle conoscenze (sia all'Università che al concorso), e il datore di lavoro (il Dirigente Scolastico) purtroppo può legalmente mettere in discussione il dipendente solo su basi formali e non sulle competenze didattico/relazionali, che sono quelle che il mestiere di docente richiede maggiormente.
Il DPR 249/1998 cosiddetto "Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria", all'articolo 1 comma 1, sostiene che "La scuola è luogo di formazione e di educazione mediante lo studio, l'acquisizione delle conoscenze e lo sviluppo della coscienza critica". Le famiglie e i docenti che con miopia vedono la scuola come il mero erogatore di una "solida preparazione di base", dovrebbero tenere presente che questo non è il motivo legale per cui i docenti sono stipendiati: è infatti evidente che, nella normativa italiana, le conoscenze sono il "mezzo" e non il "fine", essendo quest'ultimo "la crescita della persona in tutte le sue dimensioni" (art. 1 comma 2).
Verso un nuovo paradigma di collaborazione scuola-famiglia
Mia nonna dava del "voi" alla sua maestra e a tutti era chiaro dove terminava il ruolo educativo della famiglia e dove iniziava quello della scuola. Il rapporto tra le due istituzioni si riduceva ad un flusso unidirezionale: la scuola diceva, la famiglia ascoltava. La famiglia continua a mutare il suo aspetto con una costante trasformazione di ruoli, valori, dinamiche. Le diverse riforme hanno inserito la scuola nel processo di cambiamento storico della famiglia, proponendo nuove tipologie di integrazione tra questi due universi e cercando di dare alla famiglia un ruolo più centrale nell’iter. Diversamente dai miei genitori, e ancora di più dai miei nonni, iI genitori di oggi sono (volenti o nolenti) spesso impegnati nelle consegne scolastiche del figlio; al tempo stesso i docenti di oggi valutano competenze che vanno al di la dalle mere conoscenze dello studente, ad esempio valutano il comportamento attribuendo un voto che fa media. Il DM 5/2009 art. 1, comma 1 sostiene che la "valutazione del comportamento degli studenti [... deve ...] accertare i livelli di apprendimento e di consapevolezza raggiunti, con specifico riferimento alla cultura e ai valori della cittadinanza e della convivenza civile". Il voto di condotta modifica la media scolastica, la sua insufficienza comporta la mancata promozione e, nelle griglie per la attribuzione dei voti massimi della condotta disponibili nei POF delle scuole, particolare importanza ha la "collaborazione con i compagni e con i docenti". Il voto viene assegnato con modalità e griglie standardizzate e può essere contestato legalmente dalla famiglia. Da tempo quindi la normativa prevede per la scuola non già una mera funzione di fornitura di conoscenze, e da tempo la legge e i costumi sociali permettono alla famiglia di essere attivamente partecipe alla vita scolastica. Oggi la crescita della persona è un obiettivo comune alla scuola e alla famiglia e i due ruoli sono più compenetrati rispetto ad alcuni decenni fa.
La collaborazione Scuola-Famiglia è una "alleanza educativa" o una "confusione di ruoli"? La prospettiva è negli occhi di chi guarda e si attiva. Molti vedono un incremento dei conflitti tra famiglie e scuola, ma il conflitto è solo apparente. E' evidente che per gli obiettivi che le due istituzioni hanno, il confronto scuola-famiglia deve essere all'insegna della collaborazione. L'offerta formativa della scuola in cui insegno ha una attitudine all'inclusività e un approccio alla relazione e alla progettazione decisamente più evoluti rispetto a quando la frequentavo come studente. Questo risultato è sicuramente imputabile all'intensificazione del rapporto scuola/famiglie, talvolta di scontro, ma nella maggior parte dei casi di confronto. Non a caso il Ministero ha emanato le linee guida per il "patto di corresponsabilità educativa" che scuola e famiglie si impegnano a rispettare sottoscrivendolo ad inizio anno.
Nel tempo mi sono reso conto che ciò che differenzia il docente tradizionale da quello sperimentatore non è il metodo di insegnamento, ma la direzione del flusso comunicativo. Se il docente tradizionale è concentrato a potenziare le proprie conoscenze per meglio trasferirle al discente, il docente sperimentatore è concentrato a mantenere viva la capacità delle persone di meravigliarsi, e ne riceve le emozioni che tengono in moto il proprio lavoro. Il docente sperimentatore è più interessato alle domande degli studenti che alle loro risposte. Il docente sperimentatore è una persona dotata di un pizzico di "visione" che tenta di introdurre dinamiche non standard con un anticipo di alcuni anni rispetto al contesto sociale di riferimento. Deve avere ovviamente lo spessore relazionale e culturale per sopportare il fatto che la maggior parte degli esseri umani vive il cambiamento come un lutto. Il docente sperimentatore è in perenne conflitto interno tra il socratico sapere di non sapere e il narcisismo onnipotente. Ma è anche disposto ad immolare questa parte di se sull'altare dell'accordo; sono gli studenti, i colleghi e le famiglie (ovvero gli altri), che lo riportano alla realtà scolastica. Lungo la strada per l'accordo viene in aiuto la scienza della comunicazione.
Il colloquio docenti/famiglie è un obbligo di legge che alcuni vivono come un peso, ma di fatto va nella direzione di un confronto che ricerca soluzioni e deve essere vissuto serenamente come parte integrante del lavoro di educatore del genitore e del docente. L'ascolto attivo e la collaborazione con le famiglie è oggi condizione imprescindibile della didattica sperimentale e, in ampliamento agli obblighi di legge che limitano i colloqui a pochi momenti ufficiali, il docente sperimentatore dovrebbe puntare ad una forte collaborazione con la famiglia ed essere quindi disponibile ad una comunicazione informale tutto l'anno con i colleghi, le famiglie e con i propri studenti.
L'accordo tra famiglia e scuola è necessario perché entrambi dicono a parole che studiare è importante, ma entrambi faticano a convincere gli studenti di ciò. Il motivo di tale difficoltà è che l'adulto ha una mente sovrastrutturata, è abituato a fare le cose che fa da sempre e tende spesso a perdere la consapevolezza del motivo di fondo. Noi ripetiamo ai figli e agli studenti che devono studiare perché altrimenti rimangono ignoranti, perché non avranno una interessante posizione lavorativa, perché non avranno un livello di retribuzione economica soddisfacente, ecc. Ma in queste spiegazioni non vi è il vero motivo per cui si studia. Il vero motivo è che studiare con passione rende più probabile l'accesso ad una vita di qualità. Per fare ciò è necessario risolvere quotidianamente diversi problemi, in particolare cercare di migliorare la qualità delle proprie relazioni sociali, trovare un lavoro possibilmente vicino alle proprie inclinazioni caratteriali, avere una soddisfacente retribuzione economica. Lo studio di discipline molto diverse, ovvero umanistiche, scientifiche e tecniche, sviluppa la capacità di risolvere problemi diversi, se poi questo viene fatto correttamente in gruppo, oltre a velocizzare la risoluzione si sviluppano le soluzioni condivise. La condivisione, oltre a portare soluzioni tecnicamente più efficaci, induce un maggior benessere relazionale: come animali sociali proviamo infatti un intrinseco piacere se l'obiettivo è raggiunto insieme.